E così sta succedendo.
Milano è una città stranissima. L’ho odiata per la maggior parte del tempo, e contro ogni logica ho iniziato ad amarla quando stavo già perdendo tutto: un amore, un lavoro, parecchie finte certezze. È una città che non so definire, che mi rende felice e infelice allo stesso tempo, proprio come i parenti che non ti scegli. È una città che brulica di vite, di storie, di speranze di farcela, di illusioni che evaporano dopo pochi mesi o che germogliano sotto le ceneri. È la città in affitto di moltissimi, fatta di stanze in affitto, colleghi in affitto, a volte anche di amici in affitto. È la città in cui puoi vivere con lo sguardo rivolto altrove, a un domani di cui non vedi bene i contorni, in perenne attesa del prossimo lavoro in cui ti pagheranno meglio, della prossima stanza che costerà di meno, del giorno in cui finalmente salirà il tuo fidanzato e la smetterete di amarvi per telefono. È la città in cui parli di lavoro anche quando non sei a lavoro. È la città in cui puoi sentirti solo nella folla, e accolto nel silenzio di una casa vuota. Milano è una città che contiene tante città: quella che corre sempre, che conosce a memoria le coincidenze dei mezzi per domare scioperi e ritardi, ma anche quella delle librerie silenziose, dei cortili dietro i portoni, quella pigra a passeggio la domenica pomeriggio. È quella dei grattaceli di vetro, formicaio di giovani rampanti in camicia azzurra, e quella dei larghi viali alberati in cui senti le grida dei bambini. È la Milano delle mostre, delle grandi case editrici, delle banche, delle modelle in fila per i casting, è la Milano da bere che ancora esiste. È l’eleganza delle viuzze in China Town, ha gli zigomi alti di certe ispaniche in tram, spesso ha gli occhi azzurri. È la città in cui ti possono chiedere con nonchalance se lavori per Mondadori o per Prada, senza rendersi conto che altrove questa sarebbe una battuta.
È la città in cui ho traslocato sei volte in un solo anno, ospite di yuppies in doppiopetto, studenti spettinati, ricche trentenni annoiate e maestre in pensione. È la città che ho guardato dal basso di una cantina e poi dall’alto di un arioso settimo piano. È la città che ho speso mesi ed energie a criticare, ma che mi fa scappare un sospiro di sollievo ogni volta che la vedo comparire dal finestrino del treno. È la città in cui ho scoperto che ciò che io chiamo “me stessa” è un mosaico difficile, pieno di tasselli che non avevo mai visto prima, o che non volevo vedere.
E allora chiudo gli occhi, e penso a cosa è stata Milano per me in questi due anni: Milano vive nel fascino sicuro di Giuseppe, sorriso perfetto e abiti su misura, savoir faire da manager di non-ho-mai-capito-cosa e accento del sud; Milano vive nella tenacia sorridente di Marta e del suo ragazzo, un soppalco in affitto e una trafila di stage mai abbastanza pagati; Milano vive negli occhi smeraldo di Islam, profilo egiziano e intercalare milanese, il sorriso più dolce che abbia mai visto, l’accanito ottimismo dei vent’anni sempre addosso; Milano vive nella riservatezza colta di Lucia, maestra in pensione con un dolore nel cuore lenito da lezioni di fisarmonica, cene tra amici e ripetizioni ai bimbi del quartiere; Milano è nella trasparenza rossa di un Negroni sbagliato le sere di giugno; Milano vive nella magrezza di Emanuela, nelle sue scarpe col tacco, nei continui viaggi che la portano lontano; Milano è lo stacanovismo appassionato di Lavinia, la sua generosità, la stima e la gratitudine che provo per lei per avermi ascoltata e aiutata pur sapendo così poco di me; Milano è la musica lounge sul divanetto di uno show-room, a un party in cui sei quella vestita peggio; Milano è la risata di mio cugino al prezzo di una birra, anzi di due al prezzo di una, seduti per terra; Milano sono i verdi occhi tristi di Valentina, la sua spola tra l’Italia e la Svizzera, il suo amore tormentato per questa città che non riesce a lasciare; Milano è il calore di un’amicizia risorta al novantesimo minuto: Carolina, Martina, la potenza dei vostri “perché?” e “perché no?”… Questo è per voi. Milano è il miracolo di qualcuno che crede in te, che ti coinvolge in un progetto, che ti spiega un’idea e ti dice “realizziamola insieme”: Milano è Simone, è Chiara, è Hans, è Nicola, è Jo, è un piccolo film che non avrei mai pensato di scrivere, né tantomeno di vedere proiettato sullo schermo di un cinema, con le mie parole che uscivano dagli altoparlanti. Milano è Andrea: un’intimità sfiorata, un muto affetto che resta nello sguardo; Milano è il brindisi del nostro addio, non sappiamo più se alla città, a noi, alle nostre vite che ricominceranno altrove.
Milano è la nebbia sui Navigli; il tintinnio dei drink sui tavolini; certe piazze vuote; certe piazze piene; i parchi con le altalene; la stanchezza ammassata sul 90 a fine giornata; certi sguardi in metropolitana; le chiacchiere in libreria; le lacrime di nascosto in tram; improvvise complicità tra sconosciuti; solitudini condivise e pezzi di cammino fatti insieme. È questa terrazza da cui ho guardato tante volte il cielo, e in cui ora scrivo il mio ultimo saluto.
Milano, sei la città in cui ho voluto credere con tutte le mie forze in una strada che non è mai stata davvero la mia; sei il posto in cui ho sperato di essermi finalmente trovata, io che non mi ero cercata abbastanza. Sei dove forse tornerò, e stavolta sarà solo un piacere.
Perciò, cara, grazie del calore e delle lezioni apprese. Non dimenticarmi: è solo un arrivederci.
Ho riportato indietro le lancette dell’orologio di qualche mese,
grazie Gaia.
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Caro Federico, le tue parole mi scaldano il cuore. Riuscire ad arrivare a qualcuno che non conosco con le mie parole mi riempie di gioia. Grazie a te per avermi scritto 🙂
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