Capitolo 3 – Una nuova Alba

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Letizia Battaglia, La bambina con il pallone, Palermo 1980

Passarono gli anni. Alba cresceva forte e sottile, ginocchia sbucciate e pugni chiusi. «La mia stella ruvida», così la chiamavo stringendola a me prima di cena. Era caparbia e curiosa come la madre, ma addolcita da un’infanzia solare. E di me? Cos’aveva, di me?  Forse la linea del naso, qualcosa nelle mani salde e pazienti, e il mio silenzio. Ma c’era dell’altro, lo sentivo e mi sfuggiva.

Me ne accorsi un giorno, Alba giocava in giardino con la madre. D’un tratto, Smirne vide uno strano movimento tra i cespugli al di là dello steccato. Come un segugio trascinato dall’istinto, mollò a terra la bambola della piccola e corse fuori, da forsennata, oltre il cortile. Corri, corri, corri. Fino al punto dell’avvistamento. Cominciò a ispezionare il groviglio con un rigore vispo e concentrato. Nel mentre, Alba fissava la sua Kitty senza una gamba e piangeva. In lacrime, urlava Mamma, resta.

Non “Mamma, vieni” o “Mamma, torna”: Mamma, resta.

In quel momento, capii che Alba e io eravamo segnati dallo stesso dolore, dallo stesso panico in sordina. Una fitta mi prese mentre pensavo che mia figlia aveva ereditato la mia angoscia, e non conoscevo rimedio per rompere questa catena.

Quando Smirne tornò verso casa, stringeva una lepre spaurita e rideva. Ripeteva  «Abbiamo un amico o una cena?», incurante dello sguardo umido e ammaliato di sua figlia. Aveva un’espressione leggera che non le vedevo da tempo. Prese in braccio Alba, e le mostrò l’animale dicendo «Guarda, non è bellissima? È viva». La bimba di colpo si calmò; si lasciava baciare mentre studiava quegli occhi nerissimi intenti a fiutare imminenti pericoli.

Alba adorava sua madre, e la temeva. La cercava di continuo con lo sguardo, la seguiva dietro gli angoli, le si accostava con un’aria goffa e circospetta. Sembrava me, che ancora dopo anni lasciavo che il mio amore sfiorasse Smirne come una piccola cosa, per troppo timore di vederla fuggire.

A volte, Smirne sembrava totalmente indifferente ai pericoli in cui poteva incorrere nostra figlia. A tre anni, un giorno, lasciò Alba da sola in casa per qualche ora. Quando lo scoprii, mi infuriai. «Vedi che nulla è accaduto? E anche fosse, lei è forte, più di quanto credi» disse immobile di fronte alla mia rabbia. Non ci potevo credere.

So di covare un rancore che acceca, e forse il mio modo di descrivere Smirne madre non le rende giustizia. Mia moglie amava Alba, sapeva essere divertente e protettiva in un modo tutto suo, istintivo e implacabile, come una leonessa con i cuccioli. Certe domeniche si metteva Alba su un fianco e sparivano per ore nelle radure o nei campi: le mostrava tutto quello che sapeva di alberi e uccelli, di insetti e fiori. Tornavano poco prima del buio,  stanche e sporche di terra, legate da una muta complicità che al mattino non c’era. Questo era Smirne con sua figlia.

Ricordo un tema di Alba, la maestra aveva chiesto a tutta la classe di descrivere la propria madre: La mia mamma è un lupo, è bella e fa paura, ma è fatta così, scrisse. Lo conservo nel primo cassetto accanto al letto:  in quel foglio protocollo ci sono le nostre parole, il nostro amore sbalordito e impotente per Smirne. Lì, in un intermittente inchiostro blu, è esibita la verità semplice e così difficile delle nostre vite, al di là del giusto e dello sbagliato.

Come temevo, la catena degli eventi non si ruppe. Tempo un anno, e Smirne cedette di nuovo al richiamo degli ulivi. Partì alle prime luci del settimo compleanno di Alba. Era fine settembre: con le rondini era venuta, e con le rondini se ne andò.

A volte mi chiedo se scelse l’alba per necessità, o per completare il battesimo fatale della figlia, il destino nel nome. Quando ci penso, i pugni mi si fanno di acciaio e spacco tutto quel che ho a tiro. Una frustrazione intrisa – lo so bene – di sensi di colpa e responsabilità martella lo sterno. È un dubbio che mi assale da quel giorno, quando tastai il freddo del materasso accanto a me.

«Dov’è mamma?», chiedeva Alba, gli occhi grandissimi di mandorla amara fermi nei miei, senza una lacrima. La sua calma da condannato mi faceva tremare.

«Tesoro, la mamma è partita per un viaggio», fu tutto quello che mi venne in mente. Mi sembrava la cosa più vicina alla verità. Non riuscivo proprio a mentire meglio, e di più, a mia figlia. Mi sembrava troppo intelligente, troppo dentro alle cose, troppo innamorata e intima a sua madre, come me. Mentirle o indorare la pillola, lo sentivo un tradimento.

«La mamma è tornata tra gli ulivi, ora è libera», rispose Alba sconfitta, finendo il suo latte con un lungo sorso lento.

Quello fu il primo giorno di una nuova vita: il freddo di notte, la speranza che fissa la valle e nella mano, ben stretta, una stella ruvida.

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