
L’anno ha fatto il suo giro e Smirne è comparsa con le prime rondini. Una domenica di aprile mi ha trovato in cucina, è entrata e ha detto: «Resto».
È chiaro, i primi tempi sono stati un idillio. Le sue gambe scattavano da una stanza all’altra, ma non uscivano mai alla volta degli ulivi. Qualcosa in me ne moriva, ma come potevo non gioire all’idea di avere finalmente il suo odore sul cuscino, i suoi occhi dietro lo specchio tutti i giorni?
E la prima notte. Oh. La nostra prima notte. Il mito narra che quando un uomo, per benedizione o per sventura, attira l’amore di un dio e giace con lui, può morirne sopraffatto da troppa beatitudine. Così io con lei. Smirne era quasi troppo per me. Mi ubriaca e mi uccide. Prima ne intuivo la potenza, ora ne conosco il potere. Mi fa paura? Sì. Ma è la droga più insidiosa che potessi provare. «Quando gli Dei vogliono punirti, esaudiscono i tuoi desideri», è la legge del Fato. Nulla di più vero, oggi posso dirlo.
Smirne e i suoi mille volti nel piacere. Nel fondo degli occhi curiosi vi ho letto paura, la prima volta che è stata sotto di me. L’ho amata così tanto, in quel momento. I miei gesti sono stati lenti, volevo stanarla come si fa con la volpe. La mia caccia, però, era finita. Non ero lì per profanarla, solo l’idea di un segno sul suo corpo mi dava la nausea. Volevo mostrarle che l’amore non ferisce, che io non le avrei mai fatto male, che da me non doveva fuggire. Non più. Smirne era un tempio in cui non potevo che entrare in ginocchio, il cuore grato e ricolmo del pellegrino. Il suo corpo di sirena creola era esattamente come le mie mani sapevano. Poco a poco, la paura cedette il posto al piacere. Il corpo perse tensione, i lineamenti si rilassarono. Scorsi l’ombra di un sorriso, e d’un tratto scoprii che la felicità provata davanti all’altare poteva essere solo un preludio. Ero pronto, e grato, di farmi travolgere da quell’onda mai vista prima.
Pochi mesi, ed aspettava già un figlio da me. Allora, il dio ero io. Non prendevo sonno, restavo a guardarla dormire accanto a me, una gatta rannicchiata e indolente. All’alba scendevo al porto, un canto nel cuore e la voglia di stenderle ai piedi il mare intero al ritorno. Il pescato di quell’anno andò molto bene, al mercato fioccarono sorrisi e pacche sulle spalle. Ora che la figlia di capra si fa donna finalmente puoi riposare, era voce comune tra i vecchi e le comari. Si congratulavano con me perché avevo addomesticato la Giumenta. Così chiamavano mia moglie, ora. In effetti ero diventato loquace, io che non davo confidenza nemmeno all’oste dopo troppi bicchieri. È che un figlio in arrivo, un bambino che mi avrebbe guardato con i suoi occhi, per me era un dono del cielo, di cui essere contenti fino alla fine dei giorni.
Smirne parlava poco, mi guardava furtiva ma restava, come aveva annunciato. Era talmente strano sapere che una parte di me ora cresceva in lei ancora così guardinga, così sconosciuta. Spesso era preda di nausee e capogiri che la costringevano nel letto, stremata. Eppure, mai un lamento è uscito dalla sua bocca. Prendeva la gravidanza come una sfida, non intendeva cedere. Certe notti mi stringeva forte nel letto mentre le davo le spalle. Quando mi voltavo, giaceva addormentata.
Passava le giornate tra l’uscio e il giardino. Non oltrepassava nemmeno più lo steccato, come le pecore che restano nel recinto. Il suo sguardo, però, indugiava ancora all’orizzonte, frugava sul profilo delle valli lontane dietro i vetri. Capii che desiderava ancora la vita da farfalla. Per un istante fui preso dal panico, temevo che aspettasse il momento propizio per andarsene ancora. Ma non la vedevo scalpitare come un tempo, così mi rasserenai. Fui egoista, oggi lo so. In segreto, ringraziai la nuova vita che le cresceva in grembo, nuova alleata nel trattenerla con me. La sera, davanti al fuoco, le dicevo che nessun bambino avrebbe potuto desiderare madre migliore di lei. Era un modo di dirle grazie per la sua decisione di restare e nutrire quella vita: la nostra vita. La mia vita, senza dubbio.
Una mattina si alzò e mi disse che aveva voglia di bietole e mandorle amare. “Ho sognato nostra figlia. Si chiamerà Alba”, mi salutò mentre correvo in paese. E Alba fu, in effetti. Mai nome fu più azzeccato e contraddittorio: Alba era scura e terrosa come la madre, ma aveva la luce dell’aurora negli occhi. Chissà da chi aveva preso quello sguardo di pietra e rugiada. Era tutta un contrasto, una Smirne in miniatura. La amai a prima vista.
Anche dopo il parto, Smirne se ne stava sempre sola. Ho provato a portarla in paese almeno la sera, a passeggio. Volevo che facesse amicizia con le mogli degli altri pescatori, volevo che avesse una donna con cui parlare e che potesse aiutarla con la bambina mentre io ero in mare. Ma Smirne si rifiutava. Sarà scesa con me un paio di volte, Alba infagottata e appesa al collo, come le donne negre facevano in posti troppo lontani anche solo per l’immaginazione dei miei compaesani. Chissà dove le aveva viste.
Più la esortavo ad aprirsi con le altre donne, più se ne risentiva. «Quelle non sanno nemmeno cos’è un tramonto, cosa significa correre nel campo», diceva. Ridendo le risposi che forse qualcuna di loro nel campo ci era corsa davvero. Lei mi buttò gli occhi addosso e disse: «Quello non è correre, quello è buttarcisi dentro per farsi fottere. Correre senza fermarsi, quella è un’altra cosa; e non la sanno fare». La guardai, ed ebbi paura. Quella sera cenammo in silenzio.
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