
Rientrai. Stranamente non ero deluso. Anzi: ero contento. Alba parlava con qualcuno. Alba amava. Alba non era pazza. Un velo di conforto si distese tra i mei pensieri, mentre oltrepassavo la soglia di casa.
Mi affacciai in camera sua, e difatti non c’era. Non m’importava, ero felice. Vicino al suo letto, immancabile, un foglio inchiostrato mi chiamava dal cuscino. Sopra, poche parole, una domanda: Dallo spiraglio entra la luce o esce la notte?
Ottima domanda. Richiusi la porta e andai a dormire.
La mattina dopo, la solita colazione aveva assunto un nuovo colore ai miei occhi. Bevevo il mio caffè e guardavo Alba, calma e sfuggente nel suo vestito a fiori. Ecco cos’era cambiato: mia figlia restava distante, ma qualcosa, in lei, rivelava una cura diversa. È la cura per qualcuno, pensai. Tutta la sua persona sembrava dedicata a qualcuno: la sua pelle riluceva morbida, pronta per essere carezzata; l’abito fresco sembrava non vedere l’ora di sollevarsi al primo alito di vento; i capelli scuri, solitamente raccolti, le sfuggivano impazienti dai fermagli; le labbra strette non resistevano a mordere un sorriso trattenuto.
Alba ama. E il suo corpo già conosce l’amore, il tocco di quel pescatore, realizzai di colpo. Dovevo scoprire di più, su di lui. Non gli permetterò di ferirla, mi promisi, piccato. Eccola, la gelosia paterna. La sentii solo allora. Maledissi il mio tono amichevole con quel ragazzo, la sera prima: dovevo metterlo alle strette, mostrarmi severo, fargli sentire che, se avesse ferito la mia Alba, se la sarebbe vista, e brutta, con me.
Scesi al porto, gli occhi da tutte le parti, famelici. Nessun volto nuovo, niente occhi verdemare. Chiesi a Sergio, il più anziano di noi. Ci conoscevamo da trent’anni: sotto le continue frecciate da vecchi lupi di mare, riluceva un affetto profondo, eppure mai sbottonato. Da semplici compagni di peschereccio, eravamo diventati amici senza dircelo. Gli sarò sempre grato: è stato uno dei pochi a non aver giudicato mai il mio amore per Smirne. Come se lo capisse, con malinconica empatia.
Sergio mi disse che sì, da qualche mese c’era un nuovo mozzo, sul bastimento che portava le merci in porto ogni sabato. «Da quando ti interessi dei marinai di città?», mi chiese, sorpreso. Risposi che mi serviva un ragazzo sveglio per un certo lavoro in mare, ma non volevo nessuno del paese. «Sei avaro, fai nuovi affari e non li spartisci con gli amici», mi fece il verso Sergio. «Quali amici, vecchio?», dissi con gli occhi furbi. Sergio rise, e mi lasciò andare.
Tempo una settimana, e una sera che stavo scaricando il pescato sul molo, ecco Sergio salire sulla mia barca, quegli occhi verdemare a fissarmi dietro la sua spalla. «Ti ho portato il ragazzo che chiedevi», mi urlò. «Si chiama Ettore». Ettore sbiancò, riconoscendomi. «Grazie, Sergio, ti devo un bicchiere», risposi sorridendo al ragazzo. Restammo soli, io e il marinaio di città.
Per darsi un tono, il giovane riacquistò subito la sua faccia da schiaffi, e disse: «Di che tipo di lavoro si tratta?». Mi fece un sorriso storto, ma continuava a cincischiare una cordicella che teneva in mano. Le iridi verdemare, arrossate dal sole, spiccavano nel bianco e nero di quel volto di sale e catrame.
«Da dove vieni, ragazzo?», mi accorsi di dover controllare la voce. Mi fingevo calmo e sicuro di me: realizzai che, in realtà, non lo ero affatto.
«Dirglielo varrebbe a poco. Non dalla città di là dal mare, comunque».
«Dimmi di dove sei».
«Di Naxos. Mia madre era greca».
«Nasso. Quella di Teseo e Arianna».
«Conosce i miti?»
«Chi va per mare conosce le storie delle isole. Tua madre non c’è più?»
«Una brutta malattia, un paio di anni fa».
«Mi spiace. E come mai parli la nostra lingua?»
«Mio padre è italiano».
«Pescatore anche lui?»
«Sì».
«Immagino abbia conosciuto tua madre al porto».
«Sissignore».
«Anche tu hai visto tanti porti, come tuo padre?»
«Un buon numero».
«E anche tu conosci tante ragazze, al porto?»
Il giovane mi fissò, senza parlare. Poi disse, senza distogliere lo sguardo: «Ne ho conosciute, sì. Ma ora ce n’è una sola, che mi fa tornare qui».
Mi accigliai: «E guarda caso è mia figlia».
«Sissignore». Ernesto si piantò ben bene a gambe larghe, davanti a me.
«Come l’hai conosciuta».
«Mi ha fatto promettere di non dirglielo».
«Se vuoi rivederla, me lo devi dire».
Gli sfuggì un sospiro dalle labbra rosee e malrasate: «L’ho vista al porto, l’estate appena trascorsa».
«E…?»
«Ci scriviamo».
«Vi scrivete?»
«No, in realtà è lei che mi scrive. Io le ho scritto solo la prima volta, per fermarla. Per convincerla a restare. Per sapere il suo nome».
«In che senso?»
«L’avevo vista sul molo. I miei compagni un po’ la fischiavano, un po’ la deridevano. Lei era spaventata, ma non parlava. La difesi, lei scappò via. La inseguii per un tratto, e pensando fosse sorda, o muta, o tutte e due, le scrissi il mio nome sui fogli che stringeva al petto. Le scrissi che era bella. Così è iniziato tutto».
«Tutto cosa?»
«Il momento in cui questo, per me, non è più un porto qualsiasi».
Non sapevo cosa dire. Sentivo che stavo perdendo la verve da padre autoritario. Stavolta ero io che cercavo di darmi un tono. Gli ficcai gli occhi addosso, e con l’atteggiamento più fermo che potei, dissi: «Ma tu, cosa vuoi da mia figlia?»
«La sua voce».
Mi bloccai. Quello sguardo azzurro, giovane e triste, rabbioso e supplicante, così vicino al mio. I capelli di grano a giugno, sparsi nel vento. La pelle nera e salata. Le mani callose strette in un pugno. Quella determinazione così familiare, che non potevo fingere di non riconoscere. Un lampo, uno spiraglio di luce, sembrò abbagliarmi per una frazione di secondo. Riuscii solo a dire: «Ora ti siedi, e mi racconti con calma, daccapo, come è iniziato tutto».
«Sissignore».