- Dal film Gabriela di Bruno Barreto (1983)
Tutto è cominciato con un pesce sfuggito alla rete. Rincorrevo, salato di onde e sudore, questo sgombro che pinnava sul molo, quando sentii alcune risate seguite da un fischio. Uno di quelli che alcuni fanno alle donne e alle bestie. Alzai gli occhi dal cemento della banchina verso il gruppetto di marinai davanti a me, e in mezzo a loro la vidi. Quelle gambe scure. Quello sguardo duro da madonna delusa. Le avrei dato sedici anni come quaranta. Per me, Alba ha tutte le età. Era un sabato di fine giugno.
Il gruppetto le diceva Vieni qua, non ti facciamo niente, cercava di toccarla, di alzarle la gonna, e sghignazzava. Ad ogni spinta di lei per allontanarli, il gruppo sbottava in un Eeeh, stai calma, che sarà mai!, Guardala, come fa la sostenuta, Facce solo sbircià se sei come tutte l’artre o se sei strana pure là sotto – riconobbi Marcello, di Civitavecchia – e giù nuove risate. Notai un lampo di smarrimento, in quello sguardo da madonna triste.
«Lasciatela in pace!», mi accorsi di aver alzato la voce solo avvicinandomi. Tutti si girarono.
«Compà, non sta’ a sprecà fiato per questa, non conviene», mi redarguì Marcello, calmo, senza togliere gli occhi di dosso alla ragazza, che ora si trovava in un angolo contro uno dei muri di cinta del porto.
«Inutile che fai il galantuomo, questa non te la dà», urlò un altro, sorridendo.
«Ma ‘nfatti, mica jela devi chiede», ribatté Marcello con un nuovo scatto verso la gonna di Alba, che di nuovo buttò in avanti le braccia.
Tutti si piegarono a ridere. Approfittando di quel momento, la ragazza fece per sorpassarlo, ma subito Marcello le bloccò la strada: «E quindi, non ci fai neanche un regalino? Stavolta ci basta un bacetto, poi ti lasciamo andare».
«Dai, Marcè, lasciala stare, oggi è di luna storta», scherzai debolmente, ma con una punta di allarme nella voce.
«Questa ci è nata, storta di luna», rispose il romano.
Guardai quegli occhi, ora lucidi, di un colore indefinibile, di miele e di roccia. Di colpo, mi irritai. «A maggior ragione, lasciala perdere, allora».
«Fatti i fatti tuoi, greco», sibilò Marcello, e saltò addosso ad Alba, stringendola per la vita. La ragazza fece un gemito di sorpresa e cominciò a divincolarsi.
Era la prima volta che vedevo tanta determinazione nel più completo silenzio.
Dopo, non ricordo bene. È stato tutto veloce. Vedere la stizza di quei grandi occhi umidi, quel mutismo fiero ma impotente, mi ha fatto scattare verso Marcello. L’ho preso di spalle, gli ho sferrato un calcio dietro alle ginocchia, che hanno subito ceduto. Il giovane ha mollato la presa, e la ragazza si è fiondata dietro l’angolo, sparendo oltre il muro. Marcello si girò, colpendo alla cieca. Mi assestò un pugno nel fianco. Nel frattempo, accorsero altri del porto a dividerci. Tra loro camminava con solenne lentezza un vecchio, barba di salsedine e una raggiera di rughe intorno agli occhi. Dalla calma dei modi e dall’attenzione che tutti sembravano accordare alle sue parole, capii che era una persona importante, per tutti loro. Mi afferrò brusco, disse che lì si lavorava, non era un ring di pugilato. Gli altri pescatori borbottarono soddisfatti. Prima di lasciarmi, però, avvicinò il suo viso al mio e piano mi ordinò, Vai a cercarla. Lo fissai, a bocca aperta. Non ebbi modo di chiedere altro: al suo perentorio Muoviti!, zoppicai dietro l’angolo.
La ragazza sembrava sparita: perlustravo con lo sguardo quello spiazzo pieno di reti smagliate, barche arrugginite e piene di falle, cordame dimenticato laggiù da chissà quanto tempo… Finché l’occhio non mi cadde su alcune assi contro un muro. Due occhi color miele brillavano dalle fessure, fissandomi senza espressione. Quando feci per avvicinarmi, Alba trasalì, e corse via.
Cercai di starle dietro, nonostante le fitte pungenti al costato. Attraversammo strade, piazzette, vicoli; svoltammo angoli, saltammo recinzioni, oltrepassammo cortili; superammo incroci, parcheggi e giardinetti. Ci appostavamo dietro muretti, edicole, panni stesi ad asciugare; sbucavamo da dietro panchine scrostate, corriere roventi posteggiate al sole, bancarelle di grasse comari e frenetici venditori. Per come ero ridotto, Alba avrebbe potuto seminarmi facilmente. E invece, appena la perdevo di vista, lei risbucava da un angolo di strada, o commetteva lo sciocco errore di fermarsi un attimo a riposare, o ad allacciare meglio un sandalo, o a bere un sorso da una fontana. Ci guardavamo, e ripartiva l’inseguimento, con la muta lealtà di un gioco tra bambini.
Gradualmente, il paesaggio cambiò: gli edifici diradavano, le strade piene di buche si spogliarono lentamente dell’asfalto ricoprendosi di ghiaia e polvere, le distese di campi si alternavano a filari di vite. Stavamo uscendo dal paese. Ero madido e allo stremo, ma vidi che la ragazza si fermò spontaneamente, di colpo. Come se si fosse trovata davanti un muro invisibile. Fissava immobile la campagna, le valli sullo sfondo, io ansante dietro di lei. Si appoggiò a una staccionata per riprendere fiato – eppure non pareva stanca, né io avevo mai visto una donna correre con così tanta energia. Mi guardò, un impasto di sorpresa, paura (gratitudine, forse?) sul volto, e non disse nulla. Lessi la fine della corsa nei suoi occhi.
Per non intimorire quella forza quasi selvatica, mi appoggiai allo steccato, e piano mi accostai. «Giuro, non voglio farti del male, solo sapere come stai», solo ora che la guardavo da vicino e con calma, mi rendevo conto con nervosismo che era bella, proprio bella. Lei mi fissava inespressiva, senza muoversi. Tra le mani, stringeva un quadernetto sbiadito, inspiegabile accessorio sopravvissuto nella corsa. «Mi chiamo Ettore», proseguii cauto. Restai in silenzio, nella speranza che iniziasse un dialogo con me. Quella ragazza bruna, immobile e fiera come una statua africana, mi guardava curiosa, ma non proferì parola. Non sapevo che fare. Solo una cosa mi era chiara: volevo il suo nome. E sì, pur senza spaventarla, volevo che sapesse che era la cosa più ipnotica che avessi mai visto. «Posso?», indicai il suo taccuino. Lei fissò a lungo la mia mano, poi tornò a scrutarmi in volto. «Non te lo rubo, voglio solo scriverti il mio nome, così te lo ricordi, se avrai ancora bisogno di aiuto». Feci il gesto del giuramento, le sorrisi. Con estrema lentezza, ma con l’atteggiamento sostenuto di un automa, mi allungò il quaderno. Raccolsi un legnetto e dalla tasca sfilai una scatola di fiammiferi. Nonostante l’allarme negli occhi, mi lasciò fare. Bruciai un capo del rametto finché si annerì, poi spensi la fiamma. Aprii il suo diario, e mentre tracciavo con la punta carbonizzata le lettere maldestre del mio nome, ammiravo quella calligrafia adulta, che al tempo stesso m’intimoriva e mi diceva “stai facendo la cosa giusta”. Decisi allora di lasciarle sul foglio anche quel che pensavo: Sei bella anche senza nome. Glielo restituii: lei lo prese, attenta a non sfiorarmi né guardarmi, poi corse via.
La lasciai andare e me ne tornai, zuppo e traballante, al porto. Nonostante il risveglio di tutto il dolore trattenuto nell’inseguimento, sentivo uno strano stordimento, come dopo tanti bicchieri di vino. Una meraviglia riderella mi frizzava dentro. Giunto al peschereccio, sordo agli insulti del capitano, fissai sorridendo un foglietto incastrato tra le reti. Dentro, quel nome che non posso più dimenticare.