Carlo si voltò a guardarla, lì sulla porta, e sorrise. Le caviglie ancora sottili e bellissime, il busto che con gli anni si era ingrossato un po’, le rughe intorno agli occhi che la facevano sembrare saggia, gli zigomi alti. Era ancora lei, Luana.
È vero, erano passati anni litigi silenzi crisi esistenziali malattie rabbie inconfessate e paure di morire – paure di morire in mille, impercettibili modi – ma guardarle le gambe, sapere che se durante una lite la paragonava a quell’isterica di sua madre lei si rabbuiava e non gli parlava per tutta la sera, non per maliziosa schermaglia, ma per un malessere impolverato che ancora bruciava (e solo lui ne conosceva i motivi); sapere che quando la chiamava Lulù, quasi fosse una ragazzina, lei arrossiva di soddisfazione e si sentiva corteggiata anche se non lo diceva; sapere quali erano i suoi volti nel piacere; sapere che quella donna sulla soglia era la stessa bionda ragazza di cui si era innamorato a vent’anni a una festa riuscita male; la stessa accanto a cui era cresciuto per più di metà della sua esistenza; la stessa che aveva desiderato con la testa e con il corpo; la stessa che aveva accettato di costruire la vita insieme a lui nel miglior modo possibile, cioè l’unico che si riusciva a fare: andando avanti – con dolore, ma sempre avanti, con ironia, ma sempre avanti; sentire che il vederla gli provocava ancora gioia, tenerezza e un inestirpabile senso di pace; tutto questo ogni volta gli schiudeva la mente alle stesse, intatte parole: “La donna della mia vita”.