
Le settimane successive, io e Alba proseguimmo questo tacito scambio. Dopo aver letto il racconto di Agnese, mi venne l’idea di lasciare il taccuino tra le maglie della rete su cui lo avevo trovato. Il sabato successivo, a fine giornata non c’era più: al suo posto un quaderno diverso, e dentro un’altra storia.
Ogni sette giorni mi preparavo a un nuovo volo, le parole di Alba erano motore e paracadute. Ogni sabato, imparavo una nuova sfumatura dell’animo umano, e solo all’ultima riga realizzavo che quello era anche l’animo mio.
Leggendo, mi conoscevo.
Ero frenetico, in quei sabati al porto: servivo in fretta i clienti, sempre distratto dalla speranza di coglierla in fragrante, mentre mi lasciava il nuovo premio settimanale. Non avvenne mai. Lo stesso, mi aggrappavo a quell’unico, strano dialogo che lei mi consentiva. Col tempo, iniziai a lasciarle piccoli doni – un fiore, un ciondolo, un fermaglio – dentro i taccuini che restituivo. Non osavo scriverle nulla, né per chiederle della sua vita, né per dirle della mia: temevo di rompere quell’incantesimo con un solo passo falso. Giusto una volta, alla fine di un testo, le scrissi Perché?. Non rispose.
Finché un giorno trovai qualcos’altro, tra le reti. Un solo foglio protocollo. Sopra, una calligrafia infantile, in un debole inchiostro blu, esordiva così:
La mia mamma è un lupo, è bella e fa paura, ma è fatta così.
Quella non era una storia qualsiasi. Era la storia di Alba. D’un fiato, lessi il tema: c’era una mamma che spariva per giorni nella campagna, tra ulivi e vigneti; una donna dal nome diverso, che non parlava con nessuno. Era amica solo di alberi, volpi e fiori. Questa mamma portava in giro sua figlia legata addosso, e a volte le insegnava i versi degli uccelli, la vita degli insetti; più spesso, però, la salutava piano con un bacio e poi correva nei campi, prima del canto del gallo.
Questa donna le aveva insegnato a correre senza fermarsi, senza avere paura. Per questo, Alba la amava. Era, però, anche una mamma che la cullava, ma sempre guardando altrove, lontano da lei. Per questo, Alba la odiava.
Il tema finiva così: A volte vorrei essere un fiore o la vigna, così so che lei mi vedrebbe quando mi guarda.
Finii di leggere che era sera, lì al porto. Corsi fuori: dovevo trovarla, non potevo più aspettare. Uscii sotto le stelle… E Alba era lì. In un’orchestra di grilli, accanto alle reti su cui aveva adagiato i pensieri. Era proprio lei, nel suo familiare mutismo. Le corsi incontro: il mento alto e gli occhi a terra mi ricordarono della sua spavalda timidezza. Solo alla fine della mia corsa, alzò gli occhi umidi, e piano sorrise. Le presi una mano e gliela baciai. Alba arrossì, ma non si scostò. Sentii qualcosa sbocciare, dentro di me.
Passeggiammo sul lungomare. Lei mi guardava e sorrideva, pietra lunare tra le mie braccia. I baci furono molti, in un silenzio mai vuoto. Solo a volte lei si ritraeva, quando cercavo di trascinarla nell’ombra più nera. Smettevo subito, terrorizzato che se ne andasse. Tornavamo sotto la luna, e io riprendevo la mia storia. Le raccontai di un pescatore che sedusse una sartina, sotto il sole di un’isola antica; di una giovane straniera in un’altra città, che addormentava suo figlio con vecchissimi miti; di un bimbo cresciuto tra flutti e catrame, matite e conchiglie, pochi amici ma fedeli come le maree; di un’infanzia felice sullo scenario di un matrimonio infelice; di una malattia fetente e codarda, aggrappata a una donna esausta; del triste spettacolo di un affetto tardivo, manifestato quando ormai era tutto perduto.
***
«Da quel giorno, ogni sabato, torno da lei. Ci vediamo la sera, dopo il mercato, sul molo. Passeggiamo, e senza dirci niente, ci diciamo tutto. Col tempo, ho cominciato a portarla fuori dal paese. All’inizio si fermava allo steccato, non voleva uscire alla volta delle colline. E per settimane, lo giuro, non l’ho forzata. Ma ogni notte aggiungiamo un passo; ogni notte, non mi lascia la mano quando il paese è alle spalle; ogni notte, l’orizzonte fa meno paura».
Ettore mi fissava da sotto le ciglia bionde, lo sguardo accartocciato dal sole. Presi a fissare il mare, pensoso. Non potevo crederci. Non sapevo come comportarmi, con questo ragazzo così sicuro. Da un lato volevo proteggere Alba: nessuno, meglio di me, conosce le ferite dell’amore. Dall’altro, però, dovevo lasciar vivere mia figlia: nessuno, meglio di me, sa quanto sia vano, e ridicolo, contrastare la spinta del desiderio, in un amore acerbo come in uno maturo.
È un ciclo che corre all’infinito, e rinasce ad ogni giovinezza: a nulla vale fermare l’euforia. Ogni amante, da solo, deve saggiarne la consistenza, e imparare dalle proprie cadute.
Nonostante questo, mi rattristai e dissi: «Tu sai che Alba non proferisce parola. Te la senti davvero di prenderti una donna muta? Il paese non sarà clemente con voi, parlo per esperienza.»
«Ma Alba sa parlare benissimo. Io l’ho sentita».
Lentamente, alzai gli occhi sul ragazzo: «Ti ha parlato?»
«Una sera di fine estate, è stata la prima volta che ho sentito la sua voce».
«Cosa ti ha detto?», il mio battito era velocissimo. Gioia e invidia mi lottavano in petto.
«Resta. Resta con me». Gli occhi verdemare di Ettore si fermarono oltre le mie spalle, quasi carezzando le onde lontane e lucenti.
«Te lo sei inventato». Il lento fuoco della gelosia stava rosolando la felicità intravista: non potevo farci niente.
«Signore, non posso provarle la voce di Alba, ma posso provarle l’amore. Mi ha scritto anche questo, non me ne separo mai», il ragazzo mi porse un biglietto su cui riconobbi la calligrafia di mia figlia. Lì c’era scritto
Amo di te la donna che hai trovato in me.
Non ho osato replicare. Sono arrossito e mi sono arreso.
Ettore concluse: «Io Alba la voglio sposare. Voglio lei, il suo amore, le sue parole. E voglio sentire la sua voce, ancora. Anche solo per me, se così vorrà. Tornerà a parlare, me lo sento».
Smirne tornerà, e tornerà per restare, queste parole riaffiorarono tra i miei pensieri. Da quanto tempo non mi tornavano in mente. Di colpo, ebbi paura: per me, per mia figlia, e per quel povero ragazzo bruciato dal sole di un’illusione. Ma ormai avevo dato il mio benestare, e annuii.
Solo, aggiunsi: «Ti chiedo poche cose, ragazzo. Non portarla troppo lontano: è tutto ciò che mi resta. E non farla innamorare della luna più di quanto lo sia di te: ha pur sempre il sangue di sua madre in corpo».
«Alba non è Smirne», la voce di Ettore era ferma senza essere scortese.
«Prego per questo tutti i giorni», sogghignai abbassando gli occhi. Non volevo che vedesse che erano lucidi.
«E poi, se mi permette, pensarla così è un po’ egoista».
«Lo so. Non imparo mai».
Ettore mi fissò a lungo, in silenzio. Poi fece per scendere dal peschereccio, ma all’ultimo si bloccò, e si voltò di nuovo.
«Forse non dovrei dirglielo, ma… Ci siamo già allontanati dal paese. Abbastanza da addentrarci tra gli ulivi, di notte, sotto le colline. Abbastanza da trovare sua madre, Smirne.»
Restai a bocca aperta, impietrito. Ettore finse di non notare il mio sgomento e mi propose, con noncuranza: «Se lei vuole, signore, gliela porto qui. Anche solo per parlare».
Mascherai l’imbarazzo con una risata amara: «Ah, ragazzo, sei molto gentile, ma quella è una giumenta senza freni, sai. Non ci riuscirai».
«Se sono riuscito a far uscire sua figlia, riuscirò a far tornare sua moglie», il volto di Ettore era molto serio, quasi solenne. Lo osservai meglio: in fondo, era così giovane. Non so se arrivava a vent’anni. Un fiotto di tenerezza mi sgorgò dentro. Sorrisi di nuovo, come davanti all’ingenuità di un bambino. Lui se ne accorse, e piccato rispose: «Certi nodi si possono sciogliere».
«Nemmeno il migliore dei marinai conosce tutti i nodi, Ettore».
«Non tutti, ma alcuni sì. Alba mi ha insegnato che “per restare, bisogna saper tornare”. Questo non me lo dimentico».
«Si può tornare mille volte, ma si resta sempre una volta sola».
Ernesto abbozzò un sorriso, il primo dall’inizio della conversazione: «Come vuole, signore. In fondo, per uno che parte e non torna, ce n’è sempre un altro che resta».
Guardai quelle spalle bruciate dal sole scendere dalla barca e allontanarsi, sparendo alla mia vista.