
Seguirono anni di tenace sacrificio. La mia vita diventò un’esatta scansione di doveri, che portavo a termine con distaccato accanimento. Nel frattempo, Alba diventò sempre più taciturna, fino al completo mutismo. Decise che le sue parole non avevano valore: non erano servite a fermare la madre, a che altro di più importante potevano giovare?
Solo le parole dette, però. Ben presto, infatti, Alba iniziò a riversare tutto il suo essere sulla carta. Mi lasciava sempre un biglietto con un saluto o una frase divertente sulla tavola, prima che andassi in porto alle prime luci. Allo stesso modo, i suoi sfoghi di rabbia avevano il volume dei sussurri e la potenza delle valanghe. Erano scritti su uno di quei fogli protocolli così simili a quello che continuavo a custodire con smania, a volte con una veemenza tale che la carta si squarciava all’apice di certe lettere.
Dentro, rivendicazioni spicciole, che da padre sapevo gestire, si alternavano ad accuse antiche, che mi facevano male, perché sapevo che non le potevo negare. Alba conosceva le mie colpe di uomo e di padre, e me le infliggeva ogni giorno con meticolosa crudeltà.
Col tempo, gli sfoghi divennero più frequenti dei motti di allegria. La mia stella ruvida cresceva bella e rabbiosa, e tutto quel rancore, lo sapevo, era per sua madre e per me. Forse soprattutto per me. Anche col sorriso negli occhi, le intravedevo sempre un lampo di disprezzo nel fondo. Attaccamento e biasimo convivevano nello sguardo, nei gesti che mi rivolgeva. Penso avesse deciso di negarmi quella voce che, sospettavo con rimpianto, cresceva sempre più simile a quella della madre: l’unico dettaglio di Smirne che io avevo sentito davvero per me. Solo i figli sanno confezionare inconsce vendette di brutale, esatta efficacia su coloro che li hanno generati.
L’infanzia e l’adolescenza di mia figlia passarono sotto una cappa di ossequiosa omertà. Tutti, in paese, mi salutavano con calore, fingevano condiscendenza verso quella mia “povera figlia infelice”, ma poi mormoravano ipotesi di pazzia sul conto di Alba. La figlia di capra ha partorito una muta, che chissà quale altra follia cova in silenzio, era il classico argomento da conversazione nei lenti pomeriggi dentro la locanda, appena prendevo l’uscio. Per conto mio, lasciavo correre: annuivo, non rifiutavo le strette di mano, mi attenevo al limite della falsa cortesia, e poi me ne tornavo a casa. Non volevo ulteriori dissapori, non me ne importava più niente. Sapevo che Alba non era matta, né muta: semplicemente, mia figlia soffriva d’abbandono. La ferita dei non amati le bruciava dentro, scoccando scintille d’ira: l’amore, o la sua mancanza, possono questo ed altro.
Insomma, Alba cresceva altera e insofferente, sempre più spoglia di quella dolcezza solare che la caratterizzava nell’infanzia. Somigliava pericolosamente a Smirne, dai tratti del volto alla curva dello sguardo, a quella del corpo. La sua figura era ormai quella di una donna. Anche lei, come la madre, manteneva un irresistibile broncio di bimba scontrosa. Era soda, quasi spigolosa, ma dotata di quella stessa sensualità perturbante che mi aveva fatto innamorare di Smirne e che, ne ero certo, iniziava a colpire non pochi giovani in paese.
Era magnetica anche di mente: anni di pensieri messi su carta, per protesta e necessità, avevano creato in Alba uno straordinario dono della parola. Ormai, mia figlia sapeva creare mondi che si muovevano vividi su fogli e quaderni che lasciava sparsi per casa. Nessuno aveva mai sentito la sua voce, eppure tutti coloro a cui facevo leggere quegli scritti restavano ammaliati dalle sue parole, così calde e taglienti a un tempo. Insegnanti, governanti, persino il prete del paese mi fecero visita per supplicarmi di portarla in città, dall’altra parte del mare, per farla studiare. Io ascoltavo, annuivo, mi inorgoglivo, cercavo io stesso di convincerla, ma niente. Alba sorrideva ironica e mostrava una impercettibile, sarcastica gratitudine a tutti quei complimenti; poi rifiutava con fermezza ogni invito. Usava me e la mia vecchiaia imminente come scudo per restare ancorata a quel bianco, immobile paese di pescatori. Chiunque di coloro che venivano a farle visita iniziava col blandirla, poi sceglieva l’arma dell’ascolto e dell’empatia, e infine, dopo una serie di proposte declinate con scuse sempre più fantasiose, se ne andava infuriato, maledicendo quella ragazza superba e masochista. Il subbuglio durò qualche anno, finché l’ingegno di Alba smise di essere visto come una preziosa risorsa da affinare, ma solo come una bellezza derelitta, lasciata a morire sulla spiaggia di quello strano, calmo, stanco porto di mare.
Io stesso le chiedevo, Perché? Lei mi rispondeva solo: Seguo il tuo stesso silenzio, papà. Non sei felice che, almeno io, resti nel recinto?
Ogni sera cenavamo in silenzio.