La 312

il
hopper-hotel-room
Edward Hopper, Hotel Room (1931)

Quindi è questa. La 312. Bagno privato, vista sul cortile interno. È carina. Luminosa, pulita, confortevole. Pensavo che avrei provato una sensazione sgradevole entrandoci, e invece non provo niente. Che strano.

Guardo le mattonelle e il candore dei lavandini, sfioro il verde intenso della poltrona, mi specchio davanti all’armadio a muro. Osservo e tocco tutto, tranne il letto. Non ci riesco. Esco sul terrazzino per prendere aria. Non c’è niente da vedere, solo una scacchiera di finestre e balconi appassiti.

Rientro, e alla fine è inevitabile: il letto trionfa davanti a me, nella sua asettica comodità, nella sua ignara colpevolezza. Mi ci siedo, ma non mi sdraio. Resto senza emozioni, sento il ronzio del ventilatore.

È qui che hai amato un’altra. La ami ancora? Hai iniziato ad amarla qui, o ci sono state altre 312, prima di questa? E dov’è che hai smesso di amare me? Due anni fa nella casa al mare, o questo Natale da mia madre, o la primavera scorsa a Roma, quando mi sono ammalata e tu hai rinunciato al concerto a cui tenevi tanto? Quando ho cominciato a risultarti insopportabile? Non hai mai voluto dirmi quando è iniziata con lei. So solo di questo hotel, di questa stanza. La 312.

Io non so che ci faccio qui. Guardo il tuo addio scritto in fretta, senza spiegazioni né niente. Non sapevi che io già sapevo: non molto, ma abbastanza. Sapevo di una doppia con bagno privato e vista sul cortile interno, di un servizio in camera, di ben due bottiglie di vino, tu che bevi poco e per lavoro viaggi sempre da solo.

Nel biglietto non hai scritto nemmeno il suo nome. So che non è importante. Non è stata lei a farti scegliere l’addio. Di sicuro non è stata lei; siamo stati noi.

Continuo a non sentire niente. Non una lacrima, un lamento, una smorfia. Solo curiosità. E adesso repulsione.

Penso a tutte le volte che hai sbuffato ad un mio desiderio, sbadigliato ad un mio pensiero, borbottato ad una mia protesta. Ripenso alle nostre liti: d’improvviso me le ricordo tutte. Quanta ipocrisia e debolezza, la mia, quanto egoismo e disinteresse, il tuo. Vorrei averlo capito prima. Prima di te, perlomeno.

Di colpo, mi alzo dal letto pensando: “Ora so che ci faccio qui”.
Dovevo venire in questa stanza, questa crudele e benedetta 312, dove è accaduto qualcosa che ti riguarda, che mi riguarda, per sentire finalmente la mia rabbia sepolta. Sono venuta qui a gridare, piangere, battere i piedi, lanciare oggetti, sbattere porte. Su queste odiose lenzuola posso buttare fuori tutto, e sarà come se tu fossi qui. E stavolta non mi interromperai.
Solo dopo mi calmerò, mi riassetterò e me ne andrò.

Ti darò il mio addio qui, prima che faccia buio.

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