È stato quando mi hai detto che allora dovevamo preoccuparci, perché ad agosto non sarebbe stato così automatico trovare cliniche disposte a farmi abortire, che il vaso per Silvia mi è scivolato di mano. «Ma non è certo che io sia incinta», era questo quello che volevo dire, ma non sono certa di averlo fatto. Non mi usciva la voce. Ero immobile, impotente, raggelata, come una lepre che sente un rumore e intuisce il fucile. Troppo tardi: sentivo già una ferita che sanguinava, da qualche parte.
Eravamo davanti al portone, tu con l’ombrello in mano, io con le chiavi nella toppa e il regalo per Silvia tra le braccia. Ricordo solo il fracasso, i cocci ovunque, tu che sobbalzi al rumore e mi guardi. Sei attonito, imprechi e mi chiedi «e adesso?». Io non rispondo, neanche ti guardo. Fisso imperterrita le gocce di pioggia che stillano dall’ombrello sul pavimento. In testa solo la frase, quella che volevo dire e non so, non ricordo, se ho pronunciato: «Io volevo tenerlo».
Non capisci perché sto ferma e non rispondo, perché non ti guardo, che mi succede, se mi sento male o mi sono ferita. Non capisci, essenzialmente. Io guardo il lago a terra, misto a detriti di vetro. «Un disastro, un vero disastro», mormori. Ti guardo, sempre zitta. Tu apri il portone ed entri a prendere una scopa per spazzare.
Io resto lì, ferma sulla soglia che non oso oltrepassare, davanti alla casa in cui non voglio più entrare. Resto lì, tra i cocci che non si possono più riattaccare, in un pianto di pioggia finito sul pavimento. Resto lì, con il dubbio di un figlio e la certezza della fine.