
Niente, ormai era tardi. Cristina diede l’ennesima occhiata all’orologio da polso che aveva sistemato sull’erba accanto a sé. Le quattro meno un quarto. Era davvero troppo tardi. Si voltò ancora verso casa con una fitta di speranza. Aguzzò lo sguardo in direzione delle finestre spalancate sulla rara brezza di giugno, seguì la linea decisa delle assi scrostate ma fiorite del porticato sul retro. Nessuno era nell’aia, nessuno aveva notato la scala che, in tutta la sua ostentata ingombranza, collegava la finestra della sua camera al terreno sottostante; nessuno si dimenava disperato per la sua assenza. Il piano stava fallendo come mai si sarebbe inaspettata: un’onda di delusione la colpì in pieno viso. Solo suo padre la schiaffeggiava con tale forza – fin da bambina, Cristina aveva sempre pensato che non esistesse dolore più grande di quello. Come si sbagliava!
“Oggi che giorno è?”, d’improvviso quell’informazione le sembrò fondamentale, “Vediamo, due giorni fa è stato il compleanno di mamma… Allora oggi è il 19 giugno”.
Pensò al suo diario, rimasto sotto al materasso. Si immaginò di aggiornarlo con la seguente frase: “Oggi, 19 giugno 1948, ho fatto una grande scoperta: l’indifferenza fa più male degli schiaffi di papà”. Una lacrima le stillò sulla gonna leggera. Un sapore amaro, di cicorie masticate, le salì in gola.
Dopo l’ultima lite con il padre, a colazione, si era chiusa in camera, a mescolare pianto e rivendicazioni. Com’era possibile che papà non capisse che Giuseppe l’amava? Che le sue intenzioni erano serie? Cosa gli serviva ancora, per fidarsi di lui?
Allora le era venuta l’idea: fingere di scappare. O meglio: fingere di scappare con Giuseppe. Così babbo avrebbe capito che il loro amore poteva arrivare a tanto, se lui continuava a mettersi in mezzo. Cristina voleva vedere la faccia del padre sbiancare, le mani stringere i radi capelli, voleva sentire le sue urla unite ai singhiozzi di mamma (sempre debole e conciliante, sempre malata).
Non chiedeva molto: voleva sentirsi amata; voleva sentire, anche se per poche ore, che contava qualcosa in quella casa. Ecco che aveva aperto la finestra, poi era scesa di soppiatto al piano terra ed era uscita di casa; infine, aveva sistemato la scala sotto le sue tende mosse dal vento, con gesti lenti e calibrati. Il padre, immerso nelle faccende dell’orto, non si era accorto di nulla; la madre, al solito, riposava in camera da letto. Cristina aveva corso a perdifiato nei campi, fermandosi ad un centinaio di metri dalla cascina. Erano le undici e mezza quando si era sdraiata tra le spighe, in attesa della sua prova d’amore. Che, però, non arrivava.
Cristina dormì, contò gli uccelli che sorvolavano la distesa di grano, indovinò la forma delle nuvole, pianse, si assopì e si ridestò ancora. Il tempo passava, ma nulla turbava la quiete domenicale dei suoi genitori. Adesso erano le quattro in punto. Solo allora si rese conto di avere fame, per la prima volta dopo tante ore: a questa sorta di sordità dei sensi può arrivare la sete di attenzione. “Adesso basta”, il pensiero le venne spontaneo.
Cristina si alzò, sistemò la gonna spiegazzata e s’incamminò verso la strada in fondo al campo, quella che portava in città. La decisione era presa, non si poteva più tornare indietro: se la sua assenza era stata così palesemente ignorata, significava che il suo valore in quella casa era minore di quanto pensasse. Inutile insistere. Cristina sarebbe andata lontano, dove avrebbe contato di più. Avrebbe cercato un amore autentico.
Chissà se avrebbe rivisto Giuseppe, un giorno. Se era amore, amore vero, sarebbe accaduto. Lo leggeva nei suoi romanzi preferiti, perché non poteva capitare nella vita vera?
Ecco che il 19 giugno 1948 da giorno del dispetto diventò il giorno della fuga.
Aggiunse anche questa frase, nel suo nuovo diario mentale.