L’Audi rossa accosta lentamente al marciapiede, fermandosi. Paolo si allunga per aprire la portiera. “Ciao.”
“Sei in ritardo.” Katia si siede pesantemente accanto a lui, abbozza un bacio che rimane sospeso nell’abitacolo, osserva la strada.
“Sandro mi ha trattenuto in ufficio per quella storia dei fornitori. Vuoi che ti metta la busta nel baule?”
“No, dentro c’è la torta di riso per tua madre. La tengo qui sulle ginocchia.” Katia finalmente si volta e lo guarda. “Piuttosto, ti sei ricordato di prendere il vino?”
Paolo si batte la fronte. “Cazzo, no! Mi sono scordato. È che ero di fretta, e…”
“Non importa. Sei il solito. Ma tanto i genitori sono i tuoi. Io ormai me ne frego. Tanto si va sempre lì a fingere col sorriso. Sappi che è l’ultima volta che vengo. L’ultima.”
Paolo sbuffa mettendo in moto. L’auto si rimette in carreggiata, ma si ferma subito.
“’Rcatroia, ancora rosso. Non arriveremo mai. C’è un traffico della madonna.”
“Certo che pure tu, un saluto dopo cena tanto per evitarci il viaggio all’ora di punta, no?”
“Dai, mia madre ci tiene. Sono stato via tanto, non mi sono mai fatto vivo…”
“Oh, ma che bravo bambino.”
“…”
“Dici sempre che la smetterai di assecondare tua madre, e mai che lo fai. Dici sempre che il tempo passa, che i tuoi ora sono cambiati, che pure tu non sei più lo stesso con loro. In questo, Paolo, scusa se te lo dico ma non sei cambiato un cazzo.”
“Cristo santo, Ka’, basta. Tutto il giorno al lavoro, mille cose, Sandro mi stressa coi fornitori, e poi arrivo qui e tu ricominci a rompere le palle con ‘sta storia…”
Non l’avesse mai detto. La sua ragazza si volta di scatto: “Ah, finalmente l’hai ammesso! Ma guarda che ti sbagli, sai: sono io che mi sono rotta i coglioni, IO! Non ne posso più di questa recita, delle foto delle vacanze, del vino, di questa cazzo di torta per tua madre, di TUTTO!”
Paolo stringe i denti e si concentra sul traffico. In quasi sette anni di relazione ha imparato a ribattere il meno possibile, un po’ per quieto vivere, un po’ per pigrizia. O forse quieto vivere e pigrizia sono la stessa cosa? Non importa.
Katia non demorde, ha pupille e narici dilatate. “Li vedi i miei capelli rossi? Li vedi? Mi stanno di merda, e pensa che li avevo fatti solo per te, perché dicevi che ti piaceva tanto questo colore… Beh, è da un anno che me ne vado in giro come un’idiota con ‘sti capelli da schifo, un anno… E tu niente! Manco te ne accorgi!”
“Calmati.” Paolo respira a fondo, conta fino a dieci, poi riprende. “Calmiamoci. E poi non è vero che ti sei fatta rossa da un anno… Dai, sarà da qualche mese, non prima…”
“No, Paolo, è un anno esatto, me li sono fatti in settembre.”
“E vabbè! Ma che siamo, su Centovetrine? Che cazzate sono queste? Davvero te la prendi se non mi accorgo del tuo taglio di capelli?” Paolo ora comincia seriamente a innervosirsi.
“Sì, me la prendo! Scusa tanto se ci tengo ancora a piacerti! Vaffanculo”, Katia si volta dall’altra parte, decisa a non guardarlo più in faccia.
“Ok. Ok. Avrei dovuto notarlo, e non l’ho fatto. Scusa. Stai benissimo, così. Ultimamente non ci sono molto con la testa…” Modalità ‘quieto-vivere’ riattivata. Funziona sempre, occorre avere fiducia.
La voce stridula della sua ragazza si fa lamentosa. “È che non ci parliamo più, non ridiamo più. Quanto sarà che non usciamo da soli?”
“Non capisco per quale motivo devi iniziare questi discorsi adesso. Non lo so da quant’è che non usciamo da soli… Non possiamo parlarne a casa?”
“Fosse per te non si parlerebbe mai di nulla, mai. Ma continuiamo pure così, continuiamo a fare come niente fosse. Stiamo sempre peggio, ma chi se ne frega, ormai…”
“Dai, Ka’, non è vero che stiamo male.”
“…andiamo pure a ingozzarci di torta di riso dai tuoi. Che palle.”
Paolo decide di passare al piano B. Stacca la mano dal volante e le accarezza un ginocchio. “Amore, si tratta solo di una cena. La solita cena dai miei. Sempre la stessa. Stesse chiacchiere, stesse battute…”
“Già, le battute di merda di tuo padre.” Katia si ostina a fissare fuori dal finestrino.
“Vabbè, e allora?”
“No, dico, già c’è tua madre con le sue lagne continue, almeno che le battute di tuo padre fossero decenti. E invece niente. E poi tua madre mi odia.”
“Ma non è vero che ti odia. Dio santo… Senti, lo sappiamo già che mio padre è così, mia madre pure e compagnia bella. Che c’è di diverso oggi? Dobbiamo solo stare lì un’oretta, due al massimo. Che ti cambia una volta in più?”
“Mi cambia che non posso pensare di andare avanti così ancora per molto.”
Piano C: buttarla sul ridere. Paolo sorride ironico. “Cos’è, hai deciso per un embargo definitivo al timballo di mia madre? Ti capisco, tesoro, ma è questione di diplomazia.”
“…”
Silenzio teso, molto teso. Paolo viene preso da una strana sensazione. La guarda. “Amore, ma che c’è?”
“Niente. Cioè… Niente”.
Eccola, la non-risposta. Immancabile. Ma ormai ha imparato: inutile far finta di niente, inutile pure insistere troppo. Basta un solo tentativo di chiarimento, giusto per fingere interesse e pulirsi la coscienza, poi passa tutto.
“In effetti, è vero, amo’, l’ho notato, è da un po’ che sei strana, sempre così nervosa… Mi dici che hai?”
“Paolo… Io sono stanca.” La voce di Katia trema. Un lungo sospiro. “Io, in realtà… Io non lo so se ti amo più.”
A momenti frena in mezzo alla strada. Non che sia la prima volta che hanno conversazioni drammatiche e pseudo-definitive come queste. Ma anche dopo sette anni, fa sempre effetto sentirsi dire certe cose. “Che dici?”
Katia non si volta, gli occhi fissi sul grigiore della periferia.
Paolo viene preso dal panico. Ora che ci pensa, la tattica dei piani ha sempre funzionato entro il piano C. Un piano D non è mai esistito. Non ce n’è mai stato bisogno. “Non esagerare, tesoro, su. È solo un periodo un po’ così. Passerà, vedrai. Stiamo lavorando tanto, il trasloco è vicino e siamo nervosi.”
Il trionfo della banalità.
“Non passa niente, Paolo, proprio niente. Non si può più tornare indietro.”
“Eh, come sei tragica…”
Katia ha il respiro affannoso e una smorfia strana. Stuzzica la carta stagnola in cui è avvolta la torta di riso. “Ti devo dire una cosa.”
Paolo la guarda di sfuggita mentre attende di immettersi in una rotonda. Il cuore ha preso un ritmo che non gli piace. “Dimmi.”
“Ecco, io… Io… Io mi vedo con un altro.”
Nella testa di Paolo si crea il vuoto. Senso di gelo, una fitta al torace che per fortuna passa subito. Gli fischia un orecchio. “…Eh?”
Katia comincia a piangere. “Mi dispiace, amore, oddio… Io…”
“Ma che cazzo dici? Stai scherzando?”
“…No.”
Per poco non esce di strada. Si becca una suonata di clacson da un tizio in BMW che lo sorpassa. Quasi non se ne accorge. “Opporc… Ma sei seria? …Ma chi cazzo è questo? Lo conosco? Ci hai scopato?”
“Dai, Paolo! Non lo conosci. Non è questo il punto.”
“Sì che è questo il punto, cazzo! Ci hai scopato?”
“Non intendo risponderti.”
“Cristo, Katia! Vaffanculo! Ma perché, PERCHÉ? No, non è vero, dai, dimmi che non è vero…”
“Mi dispiace tantissimo, ma io non sono più felice. Non lo siamo più da tanto tempo, lo sai. E l’aver conosciuto Davide mi ha fatto capire…”
“Davide? …Ma non sarà quel deficiente amico di Giulia? Io lo stronco, lo uccido, io… Quand’è successo? Da quanto tempo lo vedi?”
“Basta! Ascoltami. Lo so, sono una stronza, ti ho ferito… Ma non sto più bene. Non ce la faccio più. Mi dispiace.”
“TI DISPIACE? Scopi con un altro, mi stai lasciando, e mi dici che ti dispiace?” La voce di Paolo è rauca per lo sforzo. “…Ma porca troia! E adesso io cosa faccio? Oddio… E mo’ ai miei che gli dico?”
“Paolo, cresci! Cosa c’entrano i tuoi, adesso?”
“C’entrano che stiamo andando a quella cazzo di cena da loro! Io, io… Ma porca…!”
“Ok, accosta qui. Fermiamoci un secondo e parliamone.”
“Non c’è nulla da dire. Sei una stronza, Katia. Sei una grandissima stronza. Non ci posso credere… Non mi toccare!”
L’Audi ora è ferma in un vicolo chiuso.
“S-scusa, tesoro… Lo so, ho scelto un momento sbagliatissimo per dirtelo. Ma mi è uscito così. Dovevo farlo.”
“Sì, e quale momento migliore se non la sera della cena dai miei a un mese dal trasloco? Dio santo.”
“Hai assolutamente ragione. Scusa.”
Katia ha assunto una vocina piagnucolante che minaccia solo di peggiorare le cose. Allunga un braccio verso Paolo, che si scansa urlando: “NON MI TOCCARE! NON MI DEVI MAI PIU’ TOCCARE, HAI CAPITO?”
Un silenzio improvviso riempie l’abitacolo. Fuori, solo il rumore del traffico che prosegue indifferente.
Katia, lentamente, si ricompone. Un familiare sguardo accigliato ricompare dietro l’afflizione, che sembra già passata. Guarda dritto oltre il parabrezza. “A questo punto, credo sia meglio se mi riporti a casa. Non voglio fare altri casini. Ne riparliamo quando rientri, ok?”
Paolo è esterrefatto. “È facile mandar tutto a puttane e svignarsela così. Sette anni, dico io. Sette. Buttati nel cesso.”
“Paolo, per piacere… Sei importantissimo per me, sei e rimarrai sempre la persona che più ho amato nella mia vita.”
“Ma per favore, Katia, PER FAVORE! Risparmiami ‘ste stronzate. Sai che ti dico?” Paolo si volta lentamente verso di lei, un’inedita calma lo invade: “Ora scendi qui e te ne vai. Avanti, esci.”
“Cosa?”
“Sparisci. Scendi immediatamente da questa macchina.”
“Ma non puoi farlo!”
“Sì, che posso.”
Katia è a bocca aperta. Appoggia una mano su un fianco, assume la solita, odiosissima, aria scocciata. “E come torno a casa io, secondo te?”
“Esistono i taxi, e tu hai un cellulare carico nella borsa. Un modo lo trovi.”
Katia sembra non capire. Lo guarda per qualche secondo senza fiatare, ma poi sbotta: “Sei… Sei uno stronzo, non capisci niente! Io sono solo stata sincera con te!”
“Brava.”
Paolo rimane immobile. È la fine, è la fine, continua a ripetersi.
“…sei il solito bambino! Mi avevi promesso che cambiavi, che avresti smesso con certi atteggiamenti, e invece niente! Io mi sono fatta in quattro per superare questa crisi, e invece tu non ti sei mai sforzato, tu…”
“SCENDI, CAZZO!” Ora è Paolo che non ce la fa più.
Katia scende dalla macchina urlando. Sbatte la portiera e, tra le lacrime, vede una macchia rossa allontanarsi a tutta velocità.
Paolo guida senza pensare a niente. È finita, è finita, sembra l’unico suono che rimbomba nella sua mente. Nella testa, solo immagini dei sette anni insieme: le vacanze, le cene, i regali, le foto, la casa vecchia… La casa nuova.
E ancora: i week-end al mare, le loro canzoni preferite, le telefonate lunghe ore, gli sguardi complici, il sesso continuo dei primi anni, i silenzi…
…Ma anche le notti in bianco, i musi lunghi, le gelosie infondate (ma anche quelle fondate), le tristezze private, le accuse, le risposte rassegnate. Le non-risposte.
Paolo comincia a rendersi conto che, in effetti, ce n’erano parecchie di cose che non andavano più come una volta.
All’improvviso, un senso di sollievo stranamente lo invade.
Non ci può credere, ci è riuscito. Si è liberato di quella scassapalle infinita di Katia. Sì, perché in fondo lo sa anche lui che tra loro andava male da tempo. Evitavano di rimanere da soli a lungo, parlavano a monosillabi. Non scopavano (fatto mica da poco). Però, si sa, il famoso quieto vivere. Molto più comodo. Molto più pratico. Perché impegnarsi a chiudere, se ci può pensare qualcun altro?
Paolo sorride per la prima volta durante quel breve e incredibile tragitto in macchina.
Si ferma all’ennesimo semaforo rosso. Che fare, adesso? Di tornare a casa e continuare a litigare con Katia non se ne parla. E poi non saprebbe cosa inventarsi con mamma. Quella è capace di chiamare i carabinieri per mezz’ora di ritardo, figuriamoci.
Casualmente, si volta verso il sedile del passeggero. La torta di riso è ancora lì, ammaccata ma integra nella sua carta stagnola.
Beh…
Scatta il verde, Paolo riparte, dopo pochi metri fa un’inversione da sequestro della patente, causando un profluvio di strombazzamenti. Andrà comunque a casa dei suoi. Con torta di riso al seguito.
“Bisogna festeggiare. In fondo è vero che mia madre la odia.”