Carmen dai fianchi di chitarra gitana e dal passo ondulato. Carmen dalle ciocche di velluto e dalle ciglia di ambra. Carmen delle storie d’amore come un tango indifferente: una piroetta, il delirio che palpita sul seno, e zac!, un bel casquet per terra. Di nuovo.
Ma Carmen è anche Carmen che si rialza e ci riprova ancora, di nuovo, tenace, perché con l’esercizio alla fine si impara a non cadere.
Peccato che poi Carmen ricada ancora e ancora e ancora. È piena di lividi, Carmen. Ma il suo sorriso è ancora famoso in tutta l’Havana, ancora bianco, ancora impossibile da evitare.
Carmen balla ogni sera al Paso Doble, e balla da sola. O perlomeno, anche le serate di incontri folgoranti, appassionati, in cui il sospetto che “sì, è quello giusto” sfiora quasi la certezza, nascondono poi un risveglio solitario, con una Carmen di nuovo sola e scarmigliata tra le lenzuola stropicciate; a consolarla c’è l’alba materna di Cuba, fedele alleata nonché unica ed instancabile confidente. Un sorriso amaro si increspa sulle sue labbra di mango e peperoncino: “Un altro casquet misurato male, vero, Havana mia? Mi era sembrato di scorgere una fiamma nel suo sguardo, le sue mani sembravano troppo decise per lasciarmi andare… Ma pazienza, mi sarò sbagliata. Riproveremo stasera, amica mia”.
E così, ogni sera, al Paso Doble, Carmen tornava a ballare da sola.
Il tempo e le cadute continue, però, cominciarono a consumare la sua speranza e la spudorata risata argentina: una ruga malinconica si disegnò sulla bella fronte accigliata di Carmen, che iniziò a frequentare sempre più raramente il Paso Doble, preferendo raminghe passeggiate nel tramonto della sua fiducia. Ora i piedi erano fatti per trascinarsi stanchi sulla sabbia, non più per volteggiare su una pista tra lo stupore di anonimi ballerini; ora la sua schiena dritta e disciplinata come un violino si stendeva tra le conchiglie senza nessuna mano fremente e falsa ad adagiarla con premura.
I giorni, i mesi, un anno scivolò tra gli scogli senza che i fianchi generosi di Carmen perdessero un grammo del loro desiderio, un granello della sua passione innata – quella di cui si disperava tanto sua madre, che le ripeteva sempre: «Carmencita, tu sei nata perché la passione ti ha spinta fuori dalla pancia, ma un’eccessiva fame d’amore è una cattiva sorella; finirai buttata a mare in preda ai pescatori di tutta l’Havana». A distanza di così tanto tempo, quelle parole le tornavano in mente sempre più spesso. “Avevi proprio ragione, povera mamacita mia”.
Tutto questo, finché finalmente il tramonto si ridisegnò alba. Carmen passeggiava come al solito sul lungomare, in una sera particolarmente buia della sua vita. «Sono perduta, Havana mia, sto solo aspettando che i pescatori mi affondino insieme alle loro reti», sussurrava nel vento che singhiozzava con lei. Era la città che la comprendeva. Ma mentre ancheggiava (perché la sensualità è un dono innato che non avrebbe perso mai, nemmeno nella morte) tra gli scogli, si accorse di non essere sola: incontrò uno sguardo decadente, indurito dal sale e dal sole incallito di Cuba. Uno sguardo affamato d’amore proprio come il suo, ma abbastanza esperto nel saperlo nascondere con maestria; peccato che anche gli occhi di creola triste di Carmen fossero esperti nel leggere le sofferenze altrui, specialmente se simili alle proprie.
Carmen, incuriosita, si avvicinò a quel volto di pescatore afflitto ma dal portamento fiero che, in silenzio, si voltò verso di lei, le sfiorò le spalle con uno sguardo e, con tono tranquillo, come se fosse stata la cosa più normale del mondo, le chiese: «Señorita, mi concede un ballo?». Lei, troppo esterrefatta per ribattere e troppo ammaliata per rifiutare, si concesse all’insolita richiesta. C’era un che di familiare in quell’uomo, le pareva di conoscerlo da sempre. “Chissà, sarà la forza della sofferenza che accomuna tanti poveri cristi e fa scordare buone creanze e convenevoli… Meglio così”, pensò la sirena creola.
Ed ecco che il pescatore e la caribeña malata di passione cominciarono ad ondeggiare lentamente lì, sulla banchina del porto, con la sola melodia del vento e delle onde, col solo ritmo delle strida dei gabbiani sul molo. E cosa ballavano? La danza delle ferite e delle attese deluse: una bachata, la mứsica da amarezza dei dominicani tristi.
Non c’è dubbio, fu amore alla prima piroetta.
Carmen volteggiava ubriaca nelle braccia forti ma gentili di quello sconosciuto, vistosamente imbarazzata da quello sguardo così carezzevole e rapito, ansiosa di sapere se quegli occhi fossero solo, ahimè, l’indizio di un donnaiolo di lunga esperienza o invece quello di un vero Amante, uno che ama con le maiuscole. Le note nelle loro menti (chissà se erano le stesse per entrambi?) scorrevano immemori del tempo e della luce del giorno che stava mollemente eclissandosi, e sempre di più i loro passi si inseguivano, le loro dita si cercavano, le loro labbra esitavano, ma ormai erano certe di essersi trovate. Infine, arrivò il momento decisivo: ormai la danza era sempre più rallentata, sempre meno danza e sempre più abbraccio di amanti, e ci mancava solo la figura finale: il casquet.
Carmen ormai fremeva, tremava di gioia e di paura, la paura folle di un ennesimo falso delirio, un’ennesima (questa volta fatale) delusione: “Ti prego, amami, sii quello giusto, non posso più permettermi altre ferite, ho troppi lividi e uno in più non è permesso, è per forza l’ultimo.” Carmen pregava forte, supplicava disperata la sua fedele Havana di esaudire il suo desiderio, e nemmeno si accorse del meraviglioso casquet, un casquet da esperto ballerino, misuratissimo, che le fece eseguire il suo cavaliere sorridente. Non una caduta, nessun tonfo doloroso per terra, ma una mano forte che la teneva saldamente sospesa ad un centimetro dal terreno.
«Ti ho trovata», le sussurrò il pescatore.
“Grazie, Havanita mia, grazie di cuore”, bisbigliò lei.
Continuarono a ballare abbracciati fino all’alba e per tutto il mattino seguente, e per molte altre mattine ancora.