
A metà del terzo atto non ce l’aveva fatta più. Gli aveva detto “scusami, non mi sento molto bene” e si era fiondata fuori dalla sala, verso la toilette. Aveva fatto appena in tempo. Le lacrime avevano rovinato tutto il trucco, che peccato. Si era impegnata tanto, per quella serata… Cosa le prendeva? In realtà lo sapeva benissimo, cosa le prendeva. Anzi, chi le prendeva. Il suo nome, il maledetto nome dell’Altro, era riaffiorato. Nella sua nitida crudeltà. E dopo il nome, in una mansueta fila di vagoni, arrivarono gli occhi, la voce, le mani. Ma perché, perché? Da cosa era riemerso, quel nome? Da una battuta dell’attore sul palco? Da un volto vagamente familiare in platea? Oppure qualcuno, sedendosi, aveva chiamato un amico rimasto indietro con la sfortunata omonimia del suo amato nemico?
Lidia pensava di essere tutta sbagliata. Oltre il velluto era seduto un uomo impeccabile: attraente, gentile, divertente. E interessato a lei, soprattutto. La ascoltava, cercava di farla ridere, le prendeva la mano. E invece. E invece a lei, nel bel mezzo del terzo atto, veniva in mente il nome dell’Altro, e doveva correre più in fretta delle lacrime. Lui aveva gli occhi pieni di lei, e lei aveva la testa piena dell’Altro. Ancora. Basta, doveva fare qualcosa.
Erano già passati cinque minuti, doveva rientrare o Lui sarebbe venuto a cercarla. Ma Lidia non voleva essere cercata, né trovata. Voleva restare lì, in quel buio così comodo, con il suo pianto, nero di lutto, in bella mostra. Capì che non c’era più tempo. Doveva tornare dentro, e fingere benessere. Lo doveva a Lui, e a se stessa per aver permesso all’Altro di entrare di nuovo nella testa. Quell’Altro che proprio non se lo meritava.
Con un sospiro, Lidia si asciugò gli occhi cercando di sistemare il trucco meglio che poteva. “Tre, due, uno… Via” disse prima di aprire le tende rosse, sorridente nella sua nuova maschera. Si rientra in scena.