«Buongiorno, signora Picard… O dovrei chiamarla Théa Davies?» ammiccò l’ispettore Butler.
«Mi chiami Margot, Théa Davies è semplicemente il mio pseudonimo di scrittrice… Prego, entri» rispose maliziosamente Madame Picard, compiaciuta che il commissario l’avesse riconosciuta. Gli fece strada in un accogliente ma caotico salottino ricoperto di rose stampate, cucite e ritratte: su poltrone, quadri, cuscini, tende… Ovunque.
Théa Davies, al secolo Margot Picard, era una donna gentile e schietta, di spalle larghe e fianchi stretti, il cui seno prominente quella mattina di maggio era cullato da un soffice maglioncino color panna picchiettato di roselline bluette, neanche a dirlo. Originaria di Montpellier, era arrivata a Londra per studiare, ma presto si era trasferita nello Staffordshire, e dopo la lunga gavetta nel giornale locale e il grande successo come romanziera, Miss Davies si era rinchiusa nella sua casetta a Cannock Chase, circondata dalla natura. Stando a quanto disse agli intervistatori, la contemplazione del paesaggio era ciò che la ispirava maggiormente. La cittadina non aveva ancora digerito quella ventata straniera che si era insediata in Canterbury Street, e Madame Picard era ancora additata con ostilità come “la francese”.
«Quante rose… Rose ovunque. Ama molto questo genere di fiori, a quanto vedo» esclamò Denton Butler, segretamente disgustato ma per nulla sorpreso che la famosa autrice di romanzi d’amore vivesse in quella che poteva essere una casa di bambole di porcellana di primo ottocento. Il fulvo detective era in vistoso imbarazzo, non riusciva a parcheggiare la sua ingombrante mole in nessun angolo di quel salottino. Di colpo afferrò nettamente il significato proprio dell’espressione ‘muoversi come un elefante in un negozio di cristalli’.
«Sì, sono un’appassionata di giardinaggio in generale, e di rose in particolare. Conosco le proprietà di ogni fiore, ma le rose rimangono la mia passione. In fondo, anche il mio pseudonimo rimanda a quelle: Théa. È un tipo di rosa, una razza importata dalla Cina. Meravigliosa. Poi, sa, ora che siamo in maggio posso avere tutte le rose che voglio, fresche in ogni vaso.» Sorrise, le rughe le si affollarono benevolmente intorno agli occhi.
Finalmente accomodatosi su una poltrona fiorata, Denton riprese il suo contegno di detective serioso, si schiarì la voce e cominciò:
«Grazie per avermi fatto entrare, signora Picard. No, niente tè, semmai prenderei una tazza di caffè – ah, senza zucchero, mi raccomando… Grazie. Ecco, prima di farle qualche domanda sulla morte di suo padre – credo già sappia che l’autopsia ha curiosamente rilevato nel sangue del signor Bertrand un tasso elevato di digitossina, una sostanza presente nelle foglie della digitale purpurea, che però è un’erba medica abbandonata da anni nelle terapie per i malati di cuore come suo padre – ecco, dicevo, prima di questo, vorrei chiederle un favore…».
Butler, arrossendo fino alle orecchie e maledicendo tutte le donnette di provincia come sua moglie e Miss Griffith, tirò fuori due copie dell’ultimo romanzo di Théa Davies, Rosa canina e, senza guardare Madame Picard negli occhi, farfugliò: «Sì, ehm, a mia moglie farebbe tanto piacere se lei firmasse la sua copia. Anche Miss Griffith si è aggiunta: le fa tantissimi complimenti, dice che i suoi romanzi le illuminano la triste vita del carcere – credo sappia della sua drammatica situazione… Perfetto, grazie».
Bene, la figuraccia era fatta, ora si poteva cominciare sul serio e chiudere il caso molto in fretta.
Di nuovo, Butler aveva capito tutto.