Lo spettacolo

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Sono le 4, e infatti eccola. Oggi ha scelto il rosa: mi scopro a sorridere, azionando subito il tasto REC della fotocamera. La vicina sposta con un piede il tavolino che la intralcia, poi, con enfasi teatrale, gonfia il petto, butta il sedere all’indietro e si siede sulla poltroncina di vimini. Accavalla le gambe. Il mio sguardo avido fissa le unghie di un fucsia squillante pescare un vecchio numero di Vogue e iniziare ad accarezzarlo, quasi fosse un pechinese di razza.
Sposto l’inquadratura sui davanzali circostanti: al solito, il pubblico comincia a radunarsi per lo spettacolo. Dora Bazzi è pronta a esibirsi.
Ho scoperto come si chiama nel gruppo Whatsapp del condominio, perché un inquilino la conosce: la notizia è corsa nelle chat, e in pochi minuti tutto il circondario sapeva il nome della stramba femme fatale di via Donizetti n. 7.
Ogni volta si finge sola e inosservata, ma è plateale il godimento per quell’attenzione accalcata sui vetri, dietro scuri tende tapparelle, tutta per lei, come mai le era capitato prima.

Dora Bazzi ha settant’anni, ma si agghinda da florida bellezza anni Sessanta: capelli cotonati, rossetto rosa pallido, pantofoline col tacco come le migliori dive di Hollywood; vestitini psichedelici, non si sa se gelose reliquie riesumate dagli armadi o incauti acquisti da bancarella vintage. Non è sempre stata così: prima della pandemia era l’ennesima vedova annoiata, eccentrica nei limiti dell’ordinario, della provincia milanese. La sua trasformazione è un prodotto della quarantena.

Non è tanto quello che fa, ma come lo fa, e in quali vesti: gesti consueti ma caricaturali, mise teatrali insospettabili per una sciura di periferia. Una volta innaffia i gerani con guanti e grembiule dello stesso giallo canarino, in un tripudio di moine e pose da fotomodella del tempo che fu; un’altra si stende al sole ricoperta di crema abbronzante, gli occhi schermati da certi occhialetti protettivi, un bikini che neanche Rita Hayworth; indimenticabile, quando portò fuori una radiolina e iniziò a saltare, dando prova di impensabili capacità aerobiche.

Perciò, ogni pomeriggio alle 4 spiamo lo spettacolo innocente e perverso di questa nuova Madame Bovary risorta dalla polvere dell’anonimato, che si sogna soubrette da un bilocale vista parcheggio. La derisione è quotidiana, in un tamtam di battute e fotografie scattate e subito condivise. Ma c’è qualcosa in più, qualcosa di potente, irrinunciabile. Dora non è solo la vittima di questa storia: è anche l’unico antidoto alla nostra noia. Se non uscisse sul balcone, ci ricaccerebbe di colpo nella palude dell’apatia. Lei è l’aguzzino da cui dipendiamo, poveri masochisti mediocri e benpensanti.
Sì, perché siamo ammaliati, tanti fanatici voyeur di questa telenovela domestica; pendiamo tutti dalle sue labbra color ciclamino per dimenticare, anche per poco, la nostra clausura. Dora Bazzi, col suo show grottesco, ci fa sentire meno ridicoli, meno nevrotici, più indulgenti con noi stessi. Ci fa sentire ancora un gruppo chiamato “Noi”, anche solo per contrapposizione a lei. Abbiamo bisogno della sua parodia quotidiana per sentirci migliori, per pensare che in fondo non ci è andata così male. È vero, ci sentiamo in colpa dopo la goduria del dileggio collettivo, ma il giorno dopo ricominciamo daccapo. Abbiamo fame.

Così lei decide di uscire ancora, tronfia e radiosa, forte della sua insperata popolarità.

La signora Bazzi non è più sola, né ignorata: c’è voluta un’epidemia per costringerci, finalmente, a guardarla.

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